Impresso, stampato o ricamato su felpe, borse e biscotti. Otto lettere. Un logo impregnato di contaminazione, esso stesso sinonimo di contaminazione: dal ‘’fango’’ delle subculture fino al ‘’luccichio’’ del lusso. Dal sapore un po’ Barbara Kruger, box rosso, font bianco Futura Italic: Supreme.
Le radici di quello che ormai sarebbe un eufemismo definire un semplice brand ma un vero e proprio fenomeno di costume, un castello di sabbia costruito su strategie di marketing, capace di far svettare le vendite e di piegare colossi del lusso in collaborazioni (Comme des Garçons, Stone Island, Louis Vuitton, per citarne alcune) affondano a New York; precisamente in Lafayette Street, Downtown, dove nel 1994 James Jebbia crea una boutique monomarca di un brand per skater. Appunto, Supreme.
Da uno spazio angusto, commerciale, con vetrine su strada; all’apertura in breve di altri negozi. Le boutique di North Fairfax Ave a Los Angeles e quelle in California, a Parigi, Londra, Tokyo, Nagoya, Osaka e Fukoka; tutte che richiamavano lo store originale, lanciarono Supreme nel mercato globale. Lo stile inconfondibile donato da un logo accattivante e dal miscelare culture e tendenze underground degli anni Ottanta e Novanta, non solo skater, ma anche hip hop, punk e rock, fu tra gli ingredienti della ricetta per il successo.
1995 Vogue definisce Supreme lo ‘’Chanel dello Streetwear’’. Ingrediente segreto: le macchinazioni di marketing che sono in realtà ciò che fa da vero fondamento al castello di sabbia di Supreme. L’aumentare il desiderio per i capi, il fatto di rilasciarne sono dieci/quindici a settimana, usare ad arte lo spasmo e la brama dei clienti, incrementa le vendite e innalza il prodotto ai vertici del lusso, grazie anche a collaborazioni ed edizioni limitate.
Un castello di sabbia, che per ora non cede alle onde del mare.
Luca Caputo
In alto: foto tratta da unvldmag.com.
Galleria: foto tratte da Cosmopolitan, Artribune, Nss Magazine.
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